
“FRA’”. La recensione della prima del 2 ottobre.
In scena al Teatro Brancaccio fino al 4 ottobre 2025.
In una serata romana di intenso traffico, la platea del Teatro Brancaccio si è trasformata in un’oasi di calma, un rifugio dalla nevrosi urbana. A regalare questa tregua è il monologo con musiche di Giovanni Scifoni, “FRA’“, uno spettacolo che torna a Roma dopo aver registrato il tutto esaurito nella scorsa stagione alla Sala Umberto.
In scena, dal 2 al 4 ottobre, con l’ultima replica in coincidenza proprio con il giorno dedicato a San Francesco, lo spettacolo si propone di offrire un ritratto inedito e profondo del Santo.
Quella di Scifoni è una presenza “invadente” nel senso più positivo del termine, un’unica figura che (con i suoi tre musicisti) occupa l’intero palcoscenico. Con la versatilità di un saltimbanco, cantastorie, pittore, comico e cantante, propone un San Francesco che è totalmente suo. È il “Francesco di Scifoni”, presentato con un coinvolgimento che supera la quarta parete per sollecitare il pubblico.
Scifoni si interroga su come parlare di San Francesco senza essere banalmente didascalico, arrivando alla conclusione che il Santo non era solo un santo, ma forse il più grande artista della storia. Le sue prediche erano “capolavori folli e visionari” e “performance di teatro contemporaneo”.
E così Francesco d’Assisi è visto come un personaggio estroso e lontano dall’immaginario comune, un artista e giullare che sapeva incantare folle sterminate non solo con le parole, ma con una gestualità mutuata dai trovatori e dai giullari di corte conosciuti grazie alla madre francese. La sua forza espressiva e il suo carisma erano potenti.
Con le sue movenze in palcoscenico, che a tratti ricordano il Benigni de La vita è bella, Scifoni si fa guitto della fede, un artista di strada versatile, ironico e dissacratorio. Salta da Francesco all’oggi, restituendo la figura del santo prima di tutto come uomo, afflitto dai propri pensieri, assalito dai dubbi, percosso, deriso ed ostacolato, e poi innalzato agli allori della fama mondiale. Lo spettacolo rivela il santo come una “superstar del medioevo”, un geniale inventore del presepe e autore del Cantico delle creature, il primo componimento lirico in volgare italiano.
La sua performance è sostenuta dalle musiche originali di Luciano Di Giandomenico, Maurizio Picchiò e Stefano Carloncelli. Queste musiche sono coinvolgenti e, pur essendo eseguite con strumenti antichi, presentano sonorità moderne con sfumature rock progressive, creando un ponte sonoro tra passato e presente.
Lo spettacolo si conclude con un finale potente: il rapporto di “fratellanza, quasi di amore carnale” che Francesco aveva con la morte, “sora nostra morte corporale“.
È un finale da cui il pubblico non può scappare, costretto ad affrontare il grande tabù della nostra contemporaneità: la non immortalità. Per sottolineare questo concetto, Scifoni invita gli spettatori a chiudere gli occhi per poi essere abbagliati dai riflettori. Un gesto simbolico che ricorda come Francesco abbia composto il Cantico delle creature con le lodi al sole negli ultimi anni della sua vita, quasi cieco, con la luce che gli feriva gli occhi. In quel buio, scrisse: “Lodato sii, mio Signore, insieme a tutte le creature, specialmente per il signor fratello sole, il quale è la luce del giorno e tu tramite lui ci illumini: è bello e raggiante con grande splendore e di te, Altissimo, porta il segno“.
Giovanni Scifoni affronta la figura di “Fra’” con la sua solita maestria, in uno spettacolo che diverte e commuove, ma soprattutto fa riflettere dimostrando, ancora una volta, la sua profonda intelligenza teatrale e la capacità di rendere la storia del Santo incredibilmente attuale.
Claudio Costantino