Eliseo: La saggezza di una tigre nella Baghdad devastata dalla guerra

Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad, La recensione.
In scena al Teatro Eliseo fino all’11 ottobre 2015

Il Teatro Eliseo “è”, dice lo slogan. È, senz’altro, l’atto di grande coraggio di un imprenditore-operatore culturale-popolare attore-regista come Luca Barbareschi che, in tempi non facili, si è messo in gioco per rilanciare uno spazio teatrale di prestigio e la cultura a Roma.

Per inaugurare la, stagione teatrale del nuovo Eliseo, serviva una rappresentazione  dirompente, che coinvolgesse totalmente gli spettatori. Barbareschi porta in scena,  in prima nazionale, “Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad”, da lui diretto ed interpretato; particolarissimo testo di drammaturgia contemporanea che, nell’ediizione americana, ha visto come protagonista il compianto Robin Williams.

L’autore del testo teatrale è l’americano di origini indiane Rajiv Joseph che, con questo lavoro, è stato finalista al Premio Pulitzer ed ha assistito ora alle prime repliche all’Eliseo.

Siamo ai tempi della guerra in Iraq, della caduta di Saddam Hussein. A Baghdad, una tigre del Bengala in gabbia nello zoo e due marines a guardia dell’obiettivo “sensibile”, accovacciati nella sabbia. La tigre (che è il personaggio interpretato con grande intensità da Barbareschi) commenta la fuga insensata dei leoni, che è durata poco essendo stati impallinati dai soldati. Poi anche la tigre viene uccisa e il suo spirito vaga senza meta alla ricerca di un Paradiso e di un Dio che non ci sono; c’è solo l’inferno del presente.

Un dramma forte, suggestivo, ricco di metafore portato in scena da un ottimo cast multietnico, composto, oltre che da Barbareschi, da Marouane Zotti, Houssein Thaeri, Nadia Kibout, Sabrie Khamiss, Denis Fasolo, Andrea Bosca.

Il dramma è uno j’accuse contro la guerra, contro il mondo così “amorale”, contro la violenza dell’ “homo homini lupus”. L’allestimento proposto, rispetto a quello originario, è ancor più onirico, tragicamente onirico. Straordinaria la performance di Bairbareschi che – nei panni del fantasma della tigre, predatore per sua natura – s’interroga perché Dio, se esiste, consente gli orrori della guerra, la crudeltà, l’egoismo e che gli uomini si comportino peggio delle bestie.

Spesso la tigre, nelle sue riflessioni ad alta voce, supera la barriera della “quarta parete”, rivolgendosi direttamente alla platea, mentre sul palcoscenico altri spettri, tra cui quello di Uday Hussein, vagano senza pace; riuscendo solo a sconvolgere le menti di uomini che appaiono  carnefici e vittime allo stesso tempo.

Di impatto la scenografia di Massimiliano Nocente e le luci di Iuraj Saleri con la sabbia spettrale, il fondale del “giardino dell’Eden” che non c’è, le sagome di antiche vestigia devastate dalla guerra. Le musiche sono state scritte dal jazzista napoletano Marco Zurzolo che, per una volta abbandona il sax, per costruire atmosfere particolari affidate a strumenti e percussioni della tradizione araba. Le sonorità introducono e sottolineano  i monologhi ed i dialoghi della rappresentazione.

Quella di Barbareschi è una vecchia tigre saggia, pacata, che ha poco di felino, di aggressivo; il suo fantasma, dopo la morte, si è aperta a tutti i saperi, eppure non trova le risposte alle grandi domande esistenziali. Non mancano, nello spettacolo, ironia e battute che fanno sorridere. Ma è un riso amaro mentre, tra la sabbia, il mondo muore senza un fine.

Brunella Brienza

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