Il nuovo libro di Alfano per una ridefinizione del rock come fenomeno musicale – parte seconda


Intervista a Innocenzo Alfano  parte seconda

Se d’istinto, senza rifletterci sopra, dovessi indicare i nomi di tre compositori/musicisti del ’900 fondamentali chi citeresti?
Non ho dubbi: Maurice Ravel, Igor’ Fëdorovič Stravinskij ed Ennio Morricone. Concedimene però un quarto, giusto per rimanere in ambito rock. E il quarto è un gruppo, i Beatles (Lennon, McCartney, Harrison, Starr e Martin) dell’album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, per aver contribuito, sia pure indirettamente ed inconsapevolmente, alla nascita di un genere fantastico come il progressive.

Nei tuoi saggi ti concentri principalmente sul rock e le sue ramificazioni nel periodo che parte dalla seconda metà degli anni ’60 e si sviluppa nel corso degli anni ’70. Dando per acquisito il fatto che in questo periodo sono state gettate le basi per tutto ciò che è avvenuto dopo, secondo te cosa è accaduto di interessante negli anni ’80, negli anni ’90 e nel primo decennio del nuovo millennio?
La mia idea è che dopo il progressive, e più in generale dopo gli anni ’70, era molto difficile, pressoché impossibile, che potesse accadere qualcos’altro di veramente interessante nella musica rock. Ovviamente anche dopo – e anche mentre rispondo alle tue domande! – è stata prodotta, incisa, ed eseguita dal vivo, ottima musica, ma le innovazioni, la bellezza e la “memorabilità”, tutte assieme, sono state ottenute tra la seconda metà degli anni ’60 e la fine degli anni ’70.

Contemporaneamente al rock blues, al folk rock, all’acid rock, al jazz rock e al progressive (che probabilmente col rock c’entra fino a un certo punto) in Germania si andava sviluppando un terzo polo quasi del tutto estraneo a quanto avveniva in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Cosa pensi di fenomeni, per citarne solo alcuni, legati al cosiddetto “krautrock” come i Tangerine Dream, i Neu, gli Embryo, i Can, Klaus Schulze e i Kraftwerk?
Questo filone della popular music non mi ha mai appassionato un granché. Mi pare, parlando in generale, che i gruppi cosiddetti “krautrock” siano/fossero molto concentrati sull’elemento “suono”, nel loro modus operandi, e per questo motivo a me non risultano particolarmente interessanti. Io, potendo scegliere, preferisco infatti l’elemento “note”, in una composizione musicale, anche se so benissimo che, per esempio nel progressive, anche il “sound” ha la sua importanza, specialmente nelle registrazioni in studio. Direi comunque che si tratta più che altro di una questione di gusti.

In “Storie di Rock” mi ha colpito l’assenza di un’analisi approfondita della cosiddetta “Scuola di Canterbury”, e in particolare – a parte i nomi più noti come i Soft Machine, i Caravan e gli Hatfield and the North – della produzione dei Gong, probabilmente uno dei progetti musicali più “avanti” dell’epoca, anche per aver anticipato buona parte della “musica trance” che si ascolta da vent’anni a questa parte. Ti va di parlarne?
Attenzione, non ho mica scritto la storia del rock! Se avessi voluto scrivere un libro sulla storia di questo genere musicale avrei certamente dovuto parlare anche dei gruppi della cosiddetta “Scuola di Canterbury”, così come di almeno altre due o trecento formazioni. Ma il libro si intitola “Storie di Rock”, una cosa ben diversa, e il cui obiettivo era quello di concentrarsi, come viene specificato nella quarta di copertina, su “un certo numero di gruppi e di singoli musicisti, qualche concerto o festival memorabile, un po’ di dischi, una manciata di libri”. Ad ogni modo, del “Canterbury Sound” ho parlato sia in “Fra tradizione colta e popular music: il caso del rock progressivo” (2004), e sia in “Verso un’altra realtà” (2006), nel quale ho analizzato per intero, in chiave musicologica, “Where But For Caravan Would I?” dei Caravan (1968), uno dei primissimi brani incisi e pubblicati nell’ambito, appunto, della musica rock “canterburiana”.

Un altro vuoto rilevante mi pare dato dall’assenza di un approfondimento della musica di Todd Rundgren, soprattutto nel paragrafo “Si fa presto a dire album solista…” (pp. 177/182), considerato il fatto che anch’egli – seppure qualche anno dopo Roy Wood, Mike Oldfield e Paul McCartney – pubblicò nel 1978 “Hermit Of Mink Hollow”, il suo primo album nel quale da solo suonò tutti gli strumenti, e che poi fu un pioniere nel proporre spettacoli dal vivo come “one man band playing”, oltre ad essere un esploratore a dir poco temerario di un crossover a tutto tondo di ogni genere esistente nella popular music di questi ultimi 50-55 anni. Qual è il motivo, se c’è, di questa omissione? 
Non c’è nessun “vuoto” e nessuna “omissione”. Ripeto, non ho scritto la storia del rock, perciò non c’era alcuna ragione per cui dovessi approfondire la musica di Todd Rundgren. Nel paragrafo che tu citi ho detto tutto ciò che era utile e necessario dire ai fini del mio ragionamento, e i nomi dei musicisti indicati (a cui vanno aggiunti Stevie Wonder e l’italiano Gianni Leone) sono più che sufficienti a sostegno della tesi che intendevo dimostrare in quelle pagine del volume. In ogni caso Todd Rundgren, nel libro, una volta viene citato: a pagina 119, nota 1, per un problema che riguarda l’effetto sonoro denominato “phasing”, all’epoca in cui Rundgren era il leader dei Nazz, cioè alla fine degli anni ’60. (parte terza qui)

a cura di Gianmaria Consiglio

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